La vita di Alessandro Vittoria

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Paolo Veronese. Ritratto di Alessandro Vittoria. Metropolitan Museum New York

La vita di Alessandro Vittoria

La sontuosità dell’antica pittura veneziana influisce sopra lo spettatore con irresistibile fascino, di guisa che le opere di scultura restano quasi in penombra. Così la critica d’arte si occupa più raramente della plastica veneziana, e la nostra superba città ha dato i natali solamente ad un vero scultore: Alessandro Vittoria. Secondo l’occorrenza Venezia si valse dell’opera di artisti del di fuori, facendo sempre una scelta effiace: Verrocchio venne da Firenze, Sansovino pure, Antonio Rizzo dalla vicina Verona. Dopo il Sansovino la grande successione spettava ad un giovane trentino: ad Alessandro Vittoria, scultore, architetto, intagliatore in legno, uomo versatile, come ne crebbero parecchi in quell’epoca gloriosa.

Alessandro Vittoria nacque a Trento nell’anno 1525, figlio di Vigilio Vittoria dalla Volpe, a 18 anni entrò a Venezia nello studio del sommo arcgitetto e scultore fiorentino Sansovino. Ivi si istruì anzitutto nella scultura e divenne eccellente e reputato. Si staccò dal suo maestro in non molti amichevoli rapporti, per rancore prodotto da concorrenza che il giovane non sdegnò di fare al vecchio artista. Lo vediamo trasferirsi a Vicenza, ove lavorò assai a stucco per vari palazzi. Ancora nel 1551 dimorava colà, cosa accertata perché in quest’anno riceve una lettera da Pietro Aretino, il quale lo ringrazia delle saporite pere madategli e gli fa cenno che Sansovino è molto disgustato di lui per una lettera scrittagli con poco rispetto, e come buon amico si esebisce a mettere pace.

Due anni dopo l’Aretino gli comunica: “Io ebbi il cesto di pere, e non la lettera; e Tiziano, che vi tiene, come io, per figliuolo, riceve la lettera e non il cesto; benché il divino uomo vi ringrazia del dono che non ha goduto punto, nel modo che vi rendo grazie io che l’ho mangiate tutte“. Lo assicurò infine di aver calmato l’animo del Sansovino. Il Vittoria fu certo trattenuto anche dal Palladio a Vicenza che si servì della sua opera, per non pochi lavori in palazzi da lui costruiti. Però l’Aretino non tardò a fare la pace al giovane amico con il vegliardo suo maestro, e già lo vediamo nel maggio 1553 a Venezia, sposato con una trentina e abitante nella parrocchia di San Giovanni in Bragora.

In seguito non mancò al nostro Vittoria lavoro sia come scultore sia come architetto, per Venezia e la terraferma. Perciò gli fu concesso di vivere in agiatezza; coltivò fra l’altro un bel giardino, essendo appassionato botanico, ed ebbe una ricca raccolta di oggetti d’arte, fra cui primeggiavano Tiziano, Paolo Veronese, Palma il gioavane, Jacopo Bassano ecc. Possedeva inoltre un autoritratto del Parmigianino, già di proprietà dell’Aretino, ora nel Museo di Vienna. Si narra che passeggiando un giorno il Vittoria in Piazza San Marco incontrò il pittore Schiavone, il quale sotto il tabarro celava due quadretti, che per solito vendeva a vile prezzo. Il ricco scultore volle vedere le tele ed ammiratele le pagò al povero uomo assai bene.

Possedeva il Vittoria inoltre dieci paesaggi di Paolo Fiammingo, vari disegni del Parmigianino acquistati nel 1588, molti calchi di plastica di Michelangelo, del Giambologna e altresi statue romane.

Mortagli la moglie Alessandro torna nel 1567 a sposarsi con certa Veronica Lazzarini, che gli porta dote 1000 ducati. Nello stesso anno, infierendo a Venezia la peste di cui resta vittima Tiziano, Vittoria si trasferisce a Vicenza per ritornare nel dicembre dell’anno seguente a Venezia per lavori affidatigli nel palazzo ducale. Anche con la seconda moglie non ebbe prole ed essa gli morì dopo parecchi anni d’infermità. E’ cosa deplorevole che il Vittoria, diligente nel tenere nota dei suoi affari domestici, non abbia fatto altrettanto per le numerose opere d’arte da lui compiute. Da documenti risulta che visse regolato e fu esperto negli affari. Morì a ben 83 anni dopo 20 giorni di sofferenze il 27 maggio 1608.

Ci riesce impossibile di apprezzare in questo breve articolo tutta l’opera del Vittoria, ma ci limiteremo a trattenerci un po’ più a lungo intorno ai suoi sublimi busti, che lo resero immortale in tutto il mondo.

L’impiego della decorazione in stucco, la quale nel principio del ‘500 si sviluppo in Roma e dopo la morte di Raffaelo, fu continuata da Pierin del Vaga e da altri, ebbe pure a Venezia gran fortuna. Fastose e opulente sono le decorazioni in stucco del nostro artefice, fra le quali nomineremo quelle della Scala d’Oro nel nostro Palazzo Ducale, un pò sopraccariche e di struttura alquanto larga, ma nei dettagli graziosissime e ricche di fantasia.

Come scultore fu influenzato dal genio di Michelangelo e anche dai manieristi, dei quali fu capo scuola il Parmigianino. Così il Vittoria seguiva l’andazzo dei suoi tempi e nei piccoli bronzi scorgiamo spesso figurine eleganti, snelle, con colli attorcigliati, piccole teste, preludiando quasi per dire il rococò francese. Riguardo alle sculture grandi in pietra rivolgiamoci all’altare di San Francesco della Vigna, ove l’effetto pittorico viene espresso con largo piegheggiare. Si osservi la figura centrale di Sant’Antonio di Abbas con mani spledidamente modellate e con barba fluente resa con grande abilità, mentre il San Sebastiano ricorda lo schiavo nel Louvre a Parigi di Michelangelo. Ben mosse sono pure le pieghe del San Rocco, lasciando travedere il nudo. Anatomicamente corretto, ma freddo il San Girolamo nella chiesa dei Frari, mentre un’altra statua del medesimo santo ai Santi Giovanni e Paolo è più armoniosa e sansovinesca.

Non posso tacere che il Vittoria fu veramente un preclaro autore di medaglie; di questa produzione s’occupò specialmente nella sua gioventù e credo anzi che queste opere abbiano quasi altrettanto valore quanto i suoi busti. Di vivace rilievo è la medaglia rappresentante Pietro Aretino, con ricciuta barba e ben plasmato cranio, mentre nel rovescio guerrieri presentano doni al divo che siede su un trono. Il gabinetto di monete a Monaco possiede una medaglia in piombo, autoritratto del maestro, che sembra un imperatore romano.

Ma eccoci agli indimenticabili busti del Vittoria. In questi l’artista mai si palesa piccolo, sdolcinato o incerto, ma domina sovranamente la forma, con austerità e vivacissimo temperamento. Sembra che questi busti respirino; scorra del sangue nelle loro vene. Senza tema possiamo confrontare queste plastiche con i superbi ritratti del Tintoretto. Egli concepì i differenti caratteri con grande stile; individualizzando con precisione e poderosità. Se l’opera doveva possedere afficacia a gran distanza ingrandiva la testa, la sviluppava eroicamente, magnificandola. Così passano all’eternità schiere di dogi, generali, ammiragli, uomini di stato, artisti, scienziati, prelati, come fossero, ancora fra noi viventi, con le loro gioie e coi loro affanni.

Il più vecchio busto, a noi noto, del Vittoria, è quello del cardinale Contarini alla Madonna dell’Orto, lavoro un po’ vuoto, monotono, il cui fare ricorda l’arte romana, perciò poco personale. Però nella medesima chiesa si trova anche il busto di Tommaso Contarini, nel quale il maestro si dimostra nella sua completa vigoria. Fra i suoi lavori primeggia il busto del parroco Benedetto Manzini, firmato, che si trova nel Museo Archeologico del palazzo ducale. Fece il busto pure del suo maestro Sansovino, ora nel nostro Seminario patriarcale.

Questa raccolta è specialmente ricca di busti del Vittoria: superbamente e glorioso si presenta Carlo Zen; sembra che dal suo labbro sgorghi l’eco di imperioso comando; viceversa mesto ci guarda Pietro Zen; barbuto e largo nei piani Apolloni Massa e per ultimo il doge Nicolò da Ponte che sembra uscito da una tela del Tintoretto. Il Seminario possiede pure il monumento di Peranda filosofo e medico, erettogli dalla moglie, proveniente dalla demolita chiesa del San Sepolcro.

Del medico Tommaso Rangone esistono due busti, uno nell’Ateneo Veneto, l’altro in terracotta nel nostro Museo Civico, il quale deve essere stato eseguito dal vero, così morbido ed efficace si presenta nel chiaroscuro. Alla Ca’ d’Oro sono passati due busti, uno di Pietro Duodo generale, ul quale combatteva a Lepanto, l’altro di Francesco Duodo ambasciatore a Roma. Nel suo testamento il Vittoria lasciò il busto in marmo del valoroso Sebastiano Venier al palazzo ducale. I pochi ritratti menzionati devono bastare. Quasi turri sono opere magistrali, modellate con larghezza di tocco e l’anima dell’artista ha soffiato in questi busti vita intensa, recando in essi differenti temperamenti ed aspetti umani. In questo campo trionfa; ed a ragione Vasari diceva che egli “degno del suo cognome Vittoria!“.

Fra il 1602 e 1605 Vittoria si costruì presso la porta della sagrestia a San Zaccaria, il monumento sepolcrale. Come una sintesi della sua opera ci appare questo bel monumento, di semplici proporzione architettoniche e nella parte figurativa in squisita eleganza. Nella sommità è personificata da una donna la scultura, contornata da due putti. Reggono una cornice due figure a guisa di Cariatidi. Sulla base si triva scolpito il suo stemma che lascia scorgere nello scudo una volpe. Nel mezzo è collocato il busto al naturale del maestro, vestito a foggia romana; la testa è incorniciata da una barbetta a punta, spazioso è il cranio, gli occhi profondi guardano di lato. Il sembiante ancor fresco non rivela matura età. Sotto il monumento riposano le sue ceneri.(1)

(1) L. Brosch. IL GAZZETTINO ILLUSTRATO del 2 agosto 1925.

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