I riti del Venerdì Santo, ai tempi della Serenissima
Nel mattino del Venerdì Santo, Venezia repubblicana assumeva un aspetto caratteristico: molte botteghe chiuse; nelle Mercerie i negozi di stoffe erano tutti parati a lutto con velluti, sete e rasi neri; le magistrature “non sentavano“, cioè non davano udienza; le navi ancorate nel bacino di San Marco imbronciavano i pennoni e metevano le bandiere a mezz’asta; la Marangona suonava con tocchi lenti e ad intervalli, la morte del Signore.
Nel 1708 la Pasqua era alta e il Venerdì Santo cadeva il 7 aprile: giornata magnifica, sole spledido, brezza primaverile e sul Molo le barche delle isole dell’estuario cariche di fiori, facevano affari d’oro. Verso nona “sua Serenità in abito a lutto, con la Serenissima Signoria et Presidenze, pur tutti a lutto, assistevano a le funzioni della mattina in San Marco quali duravano due ore et poi in silenzio si partivano“.
Nel tardo pomeriggio, due ore dopo vespero, scendeva di nuovo il doge dal Palazzo, seguito dal solito superbo corte, ed antrato in chiesa, assisteva alla predica della Passione detta in quell’anno da padre Antenori, dell’ordine di San Francesco, oratore forbito “che in un punto dilettava, convinceva, persuadeva“. Intanto si compivano i preparativi per la solenne processione e appena finita la predica cominciava a snodarsi il corteo per la porta del Sacramento comunicante nell’ampio porticato Foscari del Palazzo Ducale.
In mezzo ad un grande silenzio, precedevano le sei Confraternite grandi con le loro reliquie nelle teche d’oro e d’argento e con splendidezza di torcie, di fanali, di candele accese; seguivano i Canonici di Castello e un lungo stuolo di penitenti coperti da una cappa nera dal capo ai piedi e recanti ciascuno un gran cero pasquale dipinto e dorato; veniva la santa bara di legno prezioso intarsiato e scolpito contenente il Corpo del Signore in Sacramento vigilata da due preti titolati dal Patriarca e dal Primicerio in mezzo ai suoi canonici; poi i segretari e gli scudieri ducali, il Doge, la Signoria, ultimi tutti i cittadini e gli artigiani di San Marco. Appena uscita la bara della chiesa era subito accolta sotto un baldacchino di seta nera a ricche frangie d’argento, sostenuto da sei sottocanonici e circondati dai caratteristici “fanaloni da processione” della Scuola di San Rocco. Nel passare davanti la porta maggiore della chiesa il feretro veniva alzato tre volte, il lungo corteo si formava ed ognuno, pure lo stesso doge, s’inginocchiava in segno di adorazione.
Ritornata in chiesa la processione per la porta dei Fiori, dirimpetto la piccola chiesa di San Basso, il Corpo del Signore in Eucarestia era tolto dalla panca e deposto nel sepolcro che veniva chiuso e sigilato dal Patriarca col sigillo della Repubblica presentatogli dal gran Cancelliere. La grandiosa cerimonia era finita.
In questa processione del 1708 fu magnifico lo sfarzo di cere e, racconta una cronaca della Miscellanea Cicogna, che si contarono fra torcie, candele e fanali, ben duemilaquattrocento fiammelle.
Ma con ciò non finiva la solennità di questo giorno di lutto. Ad imitazione della maggiore chiesa di San Marco, anche tutte le altre chiese parrocchiali ripetevano lo stesso rito e la stessa processione nelle prime ore notturne. Ed era grande la gara tra contrada e contrada a chi sfoggiava più cere, e al passare della processione ogni finestra, ogni ringhiera, ogni porta si illuminava di candele e di lanterne.
Così in un gran trionfo di luce finiva il Venerdì Santo veneziano, inneggiando quasi alla prossima Resurrezione. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 6 aprile 1928
FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.