La Calle Larga Berlendis e il Teatro di San Zanipolo

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Corte Berlendis. Sestiere di Cannaregio

La Calle Larga Berlendis e il Teatro di San Zanipolo

Attraversata per lungo la Calle de la Testa nella contrada di San Giovanni e Paolo per dirigersi verso le Fondamente Nove s’incontra la Calle Larga Berlendis, il cui nome ricorda una famiglia alla quale la Repubblica aveva concesso nei primi anni del Settecento la cottadinanza originaria.

Vecchia famiglia i Berlendis, oggi estinta, il cui ramo principale del Malcanton, ricco di censo e di solida cultura, aveva comperato nel 1662, con il solito esborso dei centomila ducati, la toga patrizia, mentre il ramo cadetto di San Zanipolo, discendente dal medesimo ceppo ma di modeste ricchezze, si accontentava della cittadinanza, parificata però in grado ai nobili di terraferma e che il patrizio Piero Maria Contarini chiamava “la classe de li zentilhomeni del popolo“.

La casa domenicale dei Berlendis cittadini aveva la facciata principale sul Rio dei Mendicanti, una bella casa veneziana dagli ampi poggiuoli di marmo, e la famiglia possedeva in Chiesa del Sepolcro, chiesa ore distrutta, la propria tomba con l’arma gentilizia e sotto una iscrizione latina che ne rammentava l’origine bergamasca, al confine orientale della terraferma di San Marco.

Calle Larga Berlendis ebbe una certa notorietà quando la famiglia Grimani del ramo di Santa Maria Formosa eresse nel 1639 nel Rio de la Panada, parallelo al Rio dei Mendicanti, un vasto teatro di legno, bellissimo nelle sue linee eleganti e grazioso nelle sue dorature, dove con grande sfarzo e concorso di patrizi si eseguì la “Delia“, dramma musicale di Francesco Sacrati, che ebbe un’accoglienza entusiasta dal pubblico che gremiva la sala. Non così fu per la seconda opera dal titolo “Il gran Kan del Catai“, musicata sembra da un giovane padre Daniele Turchetto, minore conventuale, la quale “non potendosi più tollerare, l’auditorio proruppe in una insolenza gettando in scena tutto quello che veniva alle mani et i gridi e le batterelle durarono fino alle otto di notte, ma il teatro essendo piene di dame fu causa che ovviò maggior male, perché in una parola meritava di peggio“.

Il teatro di Calle Berlendis o più comunemente di San Zanipolo venne nel 1645 costruito in pietra e fu per qualche tempo uno dei migliori teatri veneziani, tanto che il Martinioni nelle sue aggiunte alla “Venetia” del Sansovino, scriveva che in questo teatro “si recitano in carnevale Opere Musicali con meravigliose e ricchissime, macchine e voli ammirabili, vedendosi per oridinario Cieli, Deità, Mari, Regie, Palazzi, Boscaglie, et altre vaghe e dilettevoli apparenze. La musica è sempre squisita, facendosi scelta delle migliori voci della città, conducendone anco da Roma, da Germania e da altri luoghi, e specialmente donne, le quali con la bellezza del volto, con la ricchezza degli habiti, con il vezzo del canto, con l’attione propria del personaggio che rappresentano, apportano stupore e meraviglia“.

Per le scene e i meccanismi dei teatri veneziani venivano chiamati gli artefici più famosi, e appunto per il teatro di San Zanipolo lavorò per qualche tempo il celebre Giacomo Torelli da Fano, il quale con una macchina di sua speciale invenzione, composta di leve e di argani, mutava le scene con una rapidità prodigiosa e tutti ricordavano “la miracolosa e improvvisa mutanza di una vigna in magnifica Sala Regia“.

Nel 1678 i Grimani costruirono il teatro di San Giovanni Grisostomo il quale ebbe il primato sugli altri per circa cinquant’anni; decadde allora quello di San Zanipolo che fu chiuso nel 1715 e, quasi trentaquattro anni dopo, essendone crollato il tetto, veniva completamente distrutto.

In Calle Larga Berlendis accadeva nella sera del 14 giugno 1759 un grave fatto di sangue; veniva dalle Fondamente Nove il giovane patrizio Donà Loredan di sier Antonio in compagnia di una donna, sua amante, tale Angela Muranese, altercavano a voce alta e mentre la donna cercava di calmarlo l’altro sempre più si inviperiva. Giunti in calle, il patrizio trasse con mossa improvvisa un pugnale e feriva due volte l’Angela che cadde a terra gridando; il feritore prese la fuga, ma giunto in Campo Santa Maria Novaspogliatosi della velada, e dela camisiola de seda, si è gettato in canale, et annegato“. Così narra un codice della nostra Marciana: il corpo del patrizio fu trovato dopo tre giorni nel paludo di San Giorgio Maggiore, e la donna due mesi dopo guariva dalle ferite. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 18 maggio 1933

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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