Francesco Dandolo. Doge LII. Anni 1328-1339
Morto il Soranzo, i correttori della Promissione ducale introdussero in essa nuove aggiunte, tra le quali: dovesse aumentarsi lo stipendio del doge e portarlo dalle lir. 4000 alle 5200 annuali: non potesse convocare da sé solo arengo o concione: avesse ad usar, per decoro, vasi d’argento per il valore di seicento zecchini: tenere venticinque servi: essere dal Comune fornito di un diadema, o corno ducale, da usare nei dì solenni, del valore non più di millecinquecento zecchini, e di un bucentoro nobilissimo proprio della sua persona e dello Stato.
Regolata così la Promissione, il dì 4 gennaio 1329, veniva eletto Francesco Dandolo, quello stesso che, soprannominato Cane, uvea ottenuto da Clemente V, il toglimento della scomunica.
Era allora la città alquanto scarsa di annona, per lo che il Dandolo, a farsi più grato il popolo, già festante per la di lui esaltazione, prometteva di provvedere la terra. E la provvide infatti, mandando, al dir del Sanudo, Nicolò Faliero in Sicilia con alcune navi a caricare frumenti.
Al principio del governo di esso doge accadde, che adiratosi il patriarca di AquiIeja, Pagano Torriani, nel vedere i popoli di Pola e di Valle, nell’Istria, darsi nuovamente alla Repubblica, si volse alle armi: a reprimer le quali spedissi, con la flotta, Giustiniano Giustiniani, che, portatosi nel Quarnero, depredò e distrusse i pochi legni che colà aveva il patriarca; e quindi, sbarcato con le sue genti, inseguì i nemici fino nel territorio del patriarca stesso, da ridurre sì lui che il capitolo suo, a chieder pace, convenendo di lasciar Pola ed altri luoghi dell’Istria ai Veneziani, verso certa somma annuale.
Ma più che questo fatto guerresco, chiamava il vigile occhio della Repubblica a guardare la nuova potenza che allora sorgeva in Oriente, quella cioè degli Osmani, con la quale doveva, in più tarda stagione, sì di sovente misurarsi, e sostenere quasi sempre da sé sola la difesa della cristianità e della civiltà europea. Vedeva la Repubblica chela sempre crescente potenza di quegli infedeli tornava di danno gravissimo al suo commercio, massime per le piraterie che incominciavano ad aver luogo nei mari corsi dai legni veneziani: onde, udito che papa Giovanni XXII aveva bandita una nuova crociata a fine di riconquistare la Terra santa, a cui grandemente aderiva Filippo IV di Valois, invitata da questo, spediva ambasciatori in Francia, e poscia al Pontefice sedente in Avignone, nel qual luogo la Repubblica stessa convenne, unitamente ad altri principi, di allestire navi ed armi per il marzo 1334, onde porre ad effetto la impresa. La morte però accaduta del Papa l’anno stesso, se fece svanire anche questa crociata, non per questo i Veneziani ristettero dal proposito d’incominciare essi soli la lotta coi Turchi, i progressi e le azioni dei quali li ponevano in grave pensiero.
Repressa, innanzi tratto, la sollevazione suscitatasi in Candia, a motivo dell’armamento colà ordinato di due galee, si spediva Pietro Zeno, con venti galee nell’Arcipelago, ove prese egli parecchi legni turchi: e quantunque la Repubblica si trovasse poco poi distratta in altra guerra, per nuovi provvedimenti presi, nel 1339, contenne quella nuova potenza barbarica.
E questa guerra fu quella che si ruppe contro Mastino della Scala, a cagione di alquante soperchierie da lui usate al commercio, agli averi, agli amici e confederati della Repubblica; a toglier le quali non valendo né rappresaglie né mezzi di conciliazione, fu d’uopo venire alla decisione delle armi. E già si univano in lega con la Repubblica i Fiorentini; poi Azzo Visconti signor di Milano, Obizzo d’Este marchese di Ferrara, Luigi Gonzaga di Mantova, e finalmente Carlo re di Boemia e Giovanni di Carintia suo fratello: già venivano a Venezia da tutta Italia sussidi; e Pietro dei Rossi, che era chiuso in Pontremoli dalle armi scaligere, fu chiamato dalla Repubblica, con l’offerta di restituirgli Parma, qualora prendesse il supremo comando. Pietro quindi travestito fuggì da Pontremoli, giunse a Firenze, e dopo aver maggiormente raffermata la propria rinomanza di prode capitano contro le armi scaligere presso Lucca, si avviò a Venezia colle genti fiorentine, ove, il dì 10 ottobre 1336, ricevette solennemente dalle mani stesse del doge il vessillo della Repubblica nella basilica di san Marco.
Raccolto quindi l’esercito alla Motta del Friuli, si indirizzò il dei Rossi a Padova, ove, respinte le armi di Alberto, fratello di Mastino, che tentavano impedire il suo passaggio sul Brenta, giunse saccheggiando fino alle porte di Padova stessa; ed ottenute parecchie vittorie per quelle terre poneva campo a Bovolenta, castello allora importantissimo, distante otto miglia da Padova; nel qual luogo ricevette nuove genti. Così, ingrossato l’esercito, si volgeva Pietro alla conquista di Treviso, e accampò nel borgo dei Santi Quaranta, nel tempo stesso che la assaliva Marco Zeno d’altra parte, sicché tre borghi vennero in lor potere: ma tuttavia quel podestà Rambaldo faceva buona difesa. Ebbero però tosto i Veneziani Noale, e videro i signori da Camino porsi sotto la lor protezione.
A Mastino intanto andava fallito il disegno di assalire improvvisamente l’armata della Repubblica sotto Padova, per cui fu obbligato di ritirarsi nuovamente a Verona. Pensò allora di venire a condizioni di pace, e perciò inviava a Venezia Marsilio da Carrara, il quale, perduto il dominio di Padova, unitamente al fratello suo Ubertino, serviva lo Scaligero nelle cose di guerra, e principalmente Alberto di lui fratello, il quale teneva il reggimento di Padova stessa. Giunto a Venezia Marsilio, invece di compiere il suo mandato, si ingraziò presso il Senato, e con esso e coi Fiorentini strinse alleanza, alfine di ottenere la signoria di Padova, con certi patti, riportati dagli storici. Ritornato quindi Marsilio dalla sua legazione, intese ad arte ad eccitar l’animo di Mastino, aizzandolo a far fronte alle armi confederate.
Ripresa adunque Mastino con più vigore la guerra, gli giunse a un tratto la nuova essere Brescia assediata dal Visconti. Costretto allora a volgersi a quella parte, affidò interamente la difesa di Padova al fratello Alberto. Senonché si suscitavano entro quella città molte discordie, per il malo animo dei cittadini verso gli Scaligeri, i quali si avevano tesoreggiato l’odio più crudo, per le efferate vessazioni da loro esercitate sui popoli.
Continuarono intanto le vittorie del dei Rossi, e Marsilio, che unitamente ad Alberto era a guardia di Padova, aspettava il destro per insignorirsi della città. Difatti, a sollecitare l’impresa che egli volgeva nell’animo, venne a sua notizia la trama ordita da Mastino contro di lui e di tutta la famiglia carrarese, ed ordinata perfino la di lui morte e quella del fratello suo. Per cui, veduto che non vi era tempo da perdere, statuì, col fratello stesso Ubertino, di porre in accordo l’occorrente per la prossima notte, ed egli stette con Alberto, acciò non sorgessero nuovi pericoli.
Ubertino provvide alla guardia della città, fornì le porte dei più fidati tra i Padovani, e indettatosi segretamente con il dei Rossi, lo invitò ad approssimarsi coll’esercito. Si accostava il capitano alla porta di Santa Croce, accennando di abbatterla, e intanto, secondo le prese intelligenze, profittando del favore della notte, andò alla porta di Pontecorvo seguito da cinquecento Tedeschi, ed avendola trovata aperta per opera di Marsilio, si mise dentro nel borgo; il dì 3 agosto 1337, passò l’altra di San Stefano alla seconda cinta di mura, che pure era schiusa, e giunse fino alla piazza senza occorrere in opposizione veruna. Marsilio, con tutti i suoi Carraresi ed altri nobili padovani, lo aspettavano ivi tranquillamente; ove giunto, lo accolsero con sommo giubilo, e festosamente, siccome liberatore della loro patria, salutarono il dei Rossi, intuonando il cantico di Zaccaria. Scosso Alberto a quella subita festa, si diede a raccozzare le proprie milizie, ma indarno, perocché il dei Rossi, rafforzato dal resto dei suoi, che erano arrivati in città, fece testa contro ai propugnatori, moltissimi ne imprigionò, parte ne spense, ed ebbe a cattivo lo stesso Albertino, e conferito poi venne il governo di Padova a Marsilio. Dopo cotale avvenimento, si diedero spontaneamente al Carrarese i castelli d’Este, di Montagnana e di Cittadella; e, dietro l’esempio di questi, fecero altrettanto i castelli minori, le terre e i villaggi del territorio padovano; sicché, per ogni dove fu ben presto ristabilita la potenza dei signori da Carrara.
Mastino intanto perdeva Brescia e Bergamo, che si arresero ai Visconti; Feltre e Belluno, che tornarono a Carlo di Boemia: e vedeva, con suo scorno, Rolando dei Rossi (succeduto nel comando generale delle armi al fratello Pietro, morto nell’assalto di Monselice) correre il pallio fin sotto le mura di Verona, e poscia minacciar seriamente la città di Lucca. Perduta quindi ogni speranza di riscossa, pensò Mastino di chieder pace.
Spediva quindi a Venezia nuova ambasciata, capo della quale era Francesco da Rugolino professore di medicina, e quantunque la perplessità dei Fiorentini per le cose di Lucca, ponesse ostacolo, pure alla fine fu convenuto fra gli altri patti: che gli Scaligeri cederebbero al Comune di Firenze, Pescia, Buggiano, Colle ed Altopascio coi loro distretti: che Treviso col suo territorio, la terra e il castello di Castelbaldo, non che Bassano passerebbero sotto il dominio dei Veneziani: i patti antichi tra Verona, Vicenza e la Repubblica si confermassero e mantenessero: sarebbero dagli Scaligeri dati compensi per tutti i danni cagionati e le somme ingiustamente tolte ai monasteri o ai privati cittadini veneziani prima della guerra, e ciò fino alla somma di ducati diecimila e non più: fosse compreso nella pace Ubertino da Carrara, al quale gli Scaligeri non avrebbero a recare per l’avvenire alcuna molestia, ed al quale la Repubblica cedeva Castelbaldo, Bassano e il suo territorio: le figlie del defunto Rizzardo da Camino sarebbero sotto la protezione della Repubblica per la conservazione dei loro beni e diritti: il vescovo di Parma riavrebbe le sue possessioni: sarebbero inclusi nella pace i dei Rossi e conserverebbero le loro castella e possidenze: si garantirebbero i beni e castelli a Vivario di Vivario nel territorio veronese e vicentino, obbligandosi però il Vivario ad abitare fuori del territorio di Vicenza e Verona: si prometteva amnistia agli abitanti di Montecchio maggiore, ribelli allo Scaligero: si perdonavano, in fine, egualmente ad altri nominati nel trattato. Dopo ciò si stabiliva ancora fra le altre cose: agli Scaligeri resterebbero Verona, Vicenza e Parma; salve le prestabilite condizioni: Lucca rimarrebbe col suo contado in mano degli Scaligeri, meno i castelli e le terre che i Fiorentini possedevano prima della guerra: sarebbero compresi nella pace i principi di Boemia e Giovanni di Carintia colle loro città di Feltre e Belluno e tutti i loro castelli e terre: così pure Azzo Visconti di Milano, Obizzo e Nicolò d’Este di Ferrara e Modena, Luigi Gonzaga di Mantova e Reggio, Ostasio da Polenta di Ravenna e Cervia, Sicca da Caldenazo o Castronovo ed altri, tra cui Francesco degli Ordelafi signore di Forlì e Cesena.
Questo trattato di pace, conchiuso il dì 24 gennaio 1339, fu promulgato il 14 febbraio susseguente in tutte le città d’ Italia con grande allegrezza, ed a Venezia massimamente, in cui ebbe luogo un solenne torneo nella piazza di San Marco.
Venuta la Repubblica in possesso di Treviso, furono spediti colà Marco Foscarini e Jacopo Trevisan, quello come rettore, e questo quale capitano del castello. Si conservava però a quel Comune liberale costituzione, come può vedersi dal primo statuto datato 15 luglio 1339, essendo allora podestà e capitano Marino Falier.
A premiar poi quei principi che avevano aiutato la Repubblica in questa guerra, furono ascritti al patriziato gli Estensi, i Gonzaga e i Carraresi, i Vonici e gli Onighi di Treviso, e gli stessi Scaligeri, desiderosi di stringersi in alleanza coi Veneziani divenuti potenti.
La gioia per tanta conquista venne amareggiata poco poi dalla morte del doge Francesco Dandolo, accaduta il di 31 ottobre 1339; il quale principe saggio ed amato otteneva sepoltura in faccia del capitolo nel chiostro vicino alla porta per fianco del coro in Santa Maria dei Frari, entro un monumento nobilissimo posto ad oro.
Al tempo del Dandolo, vennero gettate le fondamenta della chiesa dei Servi, la cui prima pietra era stata posta tredici anni innanzi; si fondava il monastero di Santo Andrea da quattro nobili matrone veneziane (13529-31), e si ampliava grandemente l’ospitale dei Santi Pietro e Paolo a Castello (1328-32).
Sul breve che gira intorno al ritratto del nostro doge si legge:
MARCHIA TOTA DIV MECVM BELLANDO SVBACTA,
TARVISIVM TANDEM SVR MEA IVRA DEDI. (1)
(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI
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