La tradizione di mangiare le fave nel Giorno dei Morti
Antichissima è la consuetudine del festivo spargimento delle fave nel giorno sacro alla commemorazione degli estinti, rimontando ai primi tempi dei Romani, e potendosi quindi in oggi riguardare come reliquia di religiosa superstizione, non senza però la sua parte di mistica influenza sulle coscienze e sull’animo degli umani.
Il pio rito muoveva da quel sacro affettuoso orrore che ci porta in sostanza a venerare i defunti, perché il sentimento della immortalità ci sta così impresso che sembra quasi di venerar l’anima, che non si vede, con l’ossequio tributato sulle spoglie, che cadono sotto i sensi. Perciò era legge che lungo le vie di Roma fossero i tumuli collocati, acciò i vivi si ricordassero sempre dei morti e si facevano sorgere e verdeggiare dei boschi all’intorno per tacita compagnia; gli alberi stessi venivano scelti dì qualità fra lor differenti, i papaveri, i salici, i cipressi, a significazione del sonno, delle lagrime e dell’ eterna vita; e stava poi sulle urne il genio della morte, sotto le sembianze di alto giovine alato, in mesta ma tranquilla attitudine, che si appoggiava a una fiaccola rovesciata e spenta, e teneva al piè una farfalla, simbolo della immortalità avvenire.
E come si trattavano quali esseri vivi, così si riteneva per fermo che un tempo vi fosse in cui ricambiassero in persona la corrispondenza delle cure assidue dell’affetto: quindi si mettevano nei quadrivi, nella ricorrenza annuale del loro giorno solenne, fave, piselli e consimili minuti presenti, nella persuasione che le ombre di notte sorgessero e assaggiassero di quelle offerte modeste. La fava fu infatti da Pitagora riguardata immagine della morte, e, dietro l’autorità del filosofo, si reputava convenire appunto quel cibo per l’onore degli estinti, onde fin d’allora ebbero origine la festa delle pentole e la pia costumanza. Ad onta però della forma superstiziosa, era sempre quella una cerimonia celebrata dall’ affetto e dalla riconoscenza.
Eredi i Veneziani del pingue patrimonio di gloria, e seguaci dell’orme di quei Romani, che, felici cultori un giorno anche dei campi, dalla lente, dai piselli e dalla fava, monumento del loro merito agrario, ebbero i nomi illustri e laudati dei Lentuli, dei Pisoni e dei Fabii, seguirono con gli altri popoli il costume. Ma educati a pensieri meno materiali e indiretti, lo fecero scopo d’intenzioni e di forme più salutari e pietose. E quando ad ogni tramonto di sole le campane mandavano ai defunti il saluto, udivano quasi dal rimbombo che ne restava prolungato per l’aria l’affettuoso ricambio di quei di sotterra alla memoria dei vivi, e ne inviavano i suffragi di un affetto religioso, che riverberarsi poi sui viventi.
Poiché bollivano allora immense nei chiostri le caldine, piene zeppe di fave, ed era incredibile il numero delle moggia che andava in quel dì consumato; e i barcaiuoli, come si usa tuttora, ricevevano dai cappuccini il dono di una misura dì fava, in riconoscenza del servizi di tutto l’anno, in cui furono da una riva all’altra della città tragittati. I ricchi scambiarono poi, con invenzione esclusiva, la natura del cibo, convertendolo in ghiotte pastiglie, e se vorremo occuparci della etimologia del vocabolo, detta dal Monti la prima porta alla scienza della parola, vedremo significare la fava, dal verbale faveo, l’intenzione di favorirne i parenti e gli amici, e la sua qualità intrinseca, quasi un favo di mele.
Alla fabbrica di quelle pastiglie attendeva l’arte dei mandòleri, che sotto gli auspici di San Gottardo teneva la scuola nella Chiesa di sant’Apollinare, la quale fu di fresco restituita con generoso sforzo della pietà cittadina al prisco culto e decoro. Erano essi detti spezieri misti, perché tenevano corrispondenza di commercio con gli speziali da grosso, appellati università, abbracciando essi gli speziali da confetti, i droghieri, i cereri, i raffinatori di zucchero e i fabbricatori di olio di mandorle. Di una di queste fabbriche antica e rinomata fa parola il Sansovino nella sua Venezia, e indica egli che dalle fave appunto quel circondario tra il ponte e le calli ottenne la denominazione che in modo assai curioso si comunicò all’oratorio medesimo, situato rimpetto e di fianco, e agli stessi padri secolari della Congregazione di San Filippo.
Poiché quella chiesa nel 1480 era una semplice cappella, eretta dalla divozione del popolo, per venerarvi una piccola immagine della Vergine, inserita sul muro di una casa privata di certi Amadi, e sotto il patriarca Madio Girardi si affidava in custodia ad un cappellano. Ha indi cominciato a divenire oratorio con privilegi, ai 2 luglio del 1572, e acquistò la indipendenza dalla chiesa limitrofa di San Leone, per pubblico istrumento, finché ai 22 novembre del 1662 si consegnava dal doge Domenico Contarini ai Padri dell’Oratorio, che la officiano tuttora con splendidezza e pietà; e dal patriarca Alorosini si fondava la congregazione, secondo l’istituto di Roma, erettasi nel 1701 l’odierna fabbrica ricca di rare e preziose reliquie e di bei dipinti dei Tiepolo, dei Piazzetta, dei Cignaroli e, dei Lazzarini, il più cospicuo e benemerito tra gli oratorii della città.
Così rimasto il nome antico della fava, quasi a memoria della riforma di un rito superstizioso, in quanto al pio uso, alle nazioni comune, di onorare i trapassati, quello che era segno materiale di corrispondenza coi morti, rimase segno materiale, legato ai morti, di corrispondenza coi vivi, una dimostrazione e un vincolo di più dell’affetto. Il quale dai padri e dagli sposi, dopo un anno, in tal giorno si rinnova, ed è espresso nella soavità del presente, che di casa in casa si manda a gustare, ed è cagione di altri nobili sensi ed affetti, come di speculazione e di calcoli ad un patrio fiorente ramo di traffico. (1)
(1) GIANJACOPO FONTANA. Occhiate storiche a Venezia. (Venezia 1854. Tip. di Giuseppe Grimaldo Ed.)
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