Ponte dei Ferali, sul Rio dei Ferali

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Ponte dei Ferali, sul Rio dei Ferali - San Marco

Ponte dei Ferali, sul Rio dei Ferali. Calle Fiubera – Marzaria San Zulian

Ponte in pietra; struttura in mattoni e pietre, bande in ferro ad ovali sostenute da colonnine in pietra d’Istria. Su un fianco del ponte, al centro dell’arco, è impressa la data “1876”. (1)

E’ un piccolo ponte che congiunge la Merceria di San Zulian con la Calle Fiubera, la calle dove si fabbricavano le “fiube“, le eleganti fibbie d’argento per le cinture delle nobildonne. Vicini al ponte invece e sul ponte stesso vi erano le botteghe dei fabbricanti di “ferali” o fanali, di cui il capo dell’arte era nel 1214 un tale Matteo quondam Gervasio, “feraler a snato Zuliano” il fondatore della scuola di devozione dei “feraleri” che eveva altare nella chiesa di San Giuliano, sotto il patrocionio di San Paolo, primo eremita.

Era antico costume nella nostra città, che dal principio della notte fino ai primi bagliori dell’alba, in parecchie strade fossero accese delle lanternine o fanaletti a cinque vetri, cioè quattro laterali e il quinto serviva come piano a base, e così, nelle notti illune, un po’ di luce fiocamente rischiava i punti più pericolosi delle nostre innumerevoli calli. Tale uso, secondo un vecchio cronista anonimo, risaliva al 1128 in cui “sotto il doge Domenico Michiel, se usava pur assae barbe postice alla greca, de sorte che veniva fato de granmale la notte, massime ne li passi cantonieri, come calle della Bissa, ponte dei Sassini, san Mattio de Rialto, che si trovava molti amazzati, et non si sapeva chi fossero stati perché non si conoscevano li malfatori, et per el dominio furono andite dette barbe sotto pena della forca et fo ordinato che le contrade mal sicure fossero posti cesendelli impizadi che ardessero tutta la notte e questo tal cargo fo dato alli piovani, et la Signoria pagava la spesa“.

I cesendelli, nominati dall’anonimo, non erano che piccoli fanali, “feraleti” e il nome osserva giustamente il Macri nelle sue “voci Veneziane antiche” veniva dalla corruzione di “cincindela“, appellativo che dagli antichi si dava alle cantaridi fisforose e alle lucertole che di notte riluciono sui prati. Le lanternine venivano di solito accese innanzi ad un altarino, che con la sua immagine dipinta di qualche santa o di Gesù Crocefisso concorreva, con la debole luce, a mettere in fuga i malfattoti essendo di triste augurio spargere sangue davanti a un altare.

Nle 1268 quando fu eletto il doge Francesco Tiepolo, per festeggiare quella elezione tanto gradita al popolo, si fece una grande processione delle Arti, “et li feraleri dil ponte de li Ferali veneno in piaza de Santo Marco con gran qualità di ferali pieni di ucelli tra le grida e il rider dil popolo e li sforzi de li putti che zerchevano deli chiapar“.

Il grave problema della illuminazione della Dominante fu sempre a cuore della Signoria, nonostante le molte difficoltà per la sua speciale toèografia con il suo labirinto di calli, coi numerosi sottoportici, con i suoi duecento e più ponti, con le fondamente lungo il margine dei canali. Così all’arte dei “feraleri” non mancava mai il lavoro, poiché sempre nuovi fanali si collocavano qua e là come nel 1450 quando venne decretato che “sotto el portego della Drapperia a San Silvestro ogni sera si accenda lampade quattro che durino sino ora quattro di notte“, e tre anni più tardi si stabiliva che “li proveditori al Sal paghino l’olio de li cesendelli tutto Rialto“.

Ma sebbene si cercasse di fare la luce nel buio pesto della notte, Venezia era sempre all’oscuro; nel 1719 si posero i primi fanali in Merceria, un anno sopo nelle calli adiacenti, e soltanto nel 1732 si ordinò dal Senato l’illuminazione intera della città, con l’obbligo a tutti di contribuirvi, esclusi solo i miserabili. E qui sorse una grossa questione con la Scuola dei Bombardieri, che aveva l’altare nella chiesa di Santa Maria Formosa, la quale non voleva assolutamente sottostare al pagamento della tassa e ricorse alla Signoria per esserne esonerata, ma per quanto i Bombardieri avessero privilegi e vantaggi particolari pure la questione venne risolta dal Maggior Consiglio a loro sfavore, ed essi dovettero pagare perché minacciati, in caso contrario, che si sarebbe ricorso al sequestro dell’alatre e della famosa pala di Santa Barbara.

Intanto nelle botteghe dei “feraleri” a San Giuliano, il lavoro ferveva alacre e intenso, si preparavano i fanali, si mettevano a posto col loro lume ad olio e la città si illuminava, tanto che Carlo Goldoni dopo esser stato parecchi mesi assente, ritornando in patria verso la fine del 1733 trova con entusiasmo “che i fanali di Venezia formavano una decorazione utile e piacevole, tanto più che aveva bensì vedute di fresco parecchie città, ove alla sera si paseggia al buio“. E il celebre commediografo, per completare la bella visione della sua cara città notturna aggiunge nelle sue Memorie: “indipendentemente da questa illuminazion stradale, vi è quella delle botteghe che stanno aperte in ogni tempo fino alle ore dieci alla sera, e gran parte di esse non si chiudono che a mezza notte e parecchie altre non si chiudono punto. Si trovano a Venezia a mezza notte, come sul mezzo giorno, i commestibili esposti alla vendita, tutte le osterie aperte, e cene belle e preparate negli alberghi e nei quartieri da dozzina; poiché non son troppo comuni in Venezia i desinari e le cene di società, ma i ritrovi di lira e soldo mettono insieme compagnia di maggior brio e libertà. Nell’estate la piazza di San Marco e i suoi contorni sono frequentati più di notte che di giorno, e di uomini e donne di goni sorte. Si canta per le piazze di giorni e di notte, per le strade, nei canali; cantano i mercamti smerciando le loro mercanzie, cantano i lavoranti facendo i loro lavori, canta il gondoliere aspettando il padrone. Il carattere della nazione è l’allegria, quello della lingua venezina la lepidezza“.

Questa la Venezia illuminata di Carlo Goldoni, poiché i “ferali” con la loro luce, sebbene scialba, avevano creato una Venezia notturna che visse parecchi anni anche dopo la caduta della Repubblica. Dalla “Gazzetta Urbana” della città di San Marco si conosce che nel 1795, i fanali sparsi per i sei sestieri erano millenovecentocinquantadue, non compresi i dodici che illuminavano la Giudecca dalla parte del canale, essendo tutta la zona dell’isola che guarda la laguna occupata da orti, da giardini, e da vigne prosperose.

Il Ponte dei Ferali fu anticamente, per breve tempo, chiamato “ponte Armeniorum“, Ponte dei Armeni, perché la colonia Armena, stabilitasi a Venezia per ragioni commerciali, ebbe fin dal 1252 una casa di sua proprità e un oratorio vicino al nostro ponte, oratorio che nel Settecento veniva visitato ogni anno nel giorno dell’Invenzione della Croce dai procuratori di San Marco “de citra“, cioè da quelli al di quà del Canal Grando, ed è tuttora, in certe sollenità, officiato dai Mechitaristi dell’isola di San Lazzaro.

Ai fanali ad olio si sostituì nel 1843 i fanali a gas che aumentarono di mano in mano fino a tremilaseicento nel 1915, ma scoppiata la guerra italo-austriaca, i fanali a gas vennero spenti per l’ultima volta la mattina del 23 maggio 1915 e non vennero mai più riaccesi.

Per quasi tre anni consecutivi Venezia rimase completamente al buio, e le vittime dell’oscuramento, persone cadute in acqua e affogate, salirono a centocinquantatre durante il terribile conflitto europeo. Finita la guerra nel 1918, si volle esteso a tutta la città l’impianto di illuminazione elettrica ed oggi Venezia, comprese la Giudecca e Sant’Elena, dispone di quattromilacentosettantuno fanali, e altri millecentotrenta illuminano complessivamente il Lido, Murano, Burano e Pellestrina.

Sul Ponte dei Ferali, sono scomparsi i “feralieri“, non più il febbrile lavoro quando il Senato volle nel 1732 Venezia rischiarata dai fanali; oggi il ponte è tranquillo, le botteghe esitono ancora, ma cambiate le mercamzie e restaurati i locali, solo il suo nome ricorda un arte che fu per secoli viva e florida, come tante arti scomparse dopo la caduta della gloriosa e vecchia Repubblica. (2)

(1) ConoscereVenezia

(2) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 4 settembre 1933.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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