La festa di San Martino, nella tradizione veneziana
La festa di San Martino era assai una delle più allegre feste popolari del Cinquecento, un tripudio di chiassosi banchetti, tra il vino nuovo e le castagne arrostite, che ricordavano un po’ le feste bacchiche dei vecchi tempi pagani. Anzi i divertimenti e i sollazzi di tale giornata, scriveva il padre Carmeli nella sua “Historia dei vari costumi sacri e profani degli antichi“, sarebbero proprio derivati nientemeno che dai baccanali, che gli ateniesi facevano appunto l’undici di novembre secondo la testimonianza di Plutarco; e la festa allora si chiamava “Pitigia” che sembra volesse significare “aprimento della botte per spillare il vin nuovo“.
Alla festa pagana, i cristiani associavano il buon San Martino, il vescovo di Tours che divise il suo tabarro con il povero mendico, e la cui solennità cadeva in quel giorno, e sebbene il santo, a quanto dicono le antiche carte, fosse astemio, pure nel giorno a lui consacrato correvano a Venezia due vecchi proverbi che finirono, se non del tutto, con la caduta della Repubblica: “da san Martino se spina la bote del bon vin“, e l’altro più significativo: “da san Martin ciapa la bala el grando e anca el picenin“.
San Martino a Venezia era allegrezza e tripudio; brigate rumorose giravano la sera di quel giorno per le strade, fermandosi sotto le finestre, facendo circolo innanzi le porte delle osterie, intonando in coro canzoni, accompagnate da cembali, tamburelli e trombette, con le quali facevano mille auguri di prosperità e chiedevano doni di vivande e di vino.
Una canzone in quel linguaggio veneto schiavonesco, che ebbe nel secolo decimosesto una piccola letteratura, ci tramanda come una eco di quelle curiose baldorie popolaresche:
“Ben vegnuo sia’ Martignun
che se alegra tutti quanti
e misser, maduna e santi
e ogni altro conpagnun,
Ben vegnuo sia Martignum,
Ognun trionpha, bevi, magna,
bon formaio, bon frutaia,
de bon carne, bon lasagna,
bon gallina, bon capun,
Ben vegnuo sia Martignun,
Tuti vada note inturno,
magna, bevi, infina zurno,
e cantando suna curno,
dami nespula e marun,
Ben vegnuo sia Martignun.
Ma dove la festa raggiungeva il tono più allegro e chiassoso era nella parrocchia di San Martino, la cui chiesa, rifabbricata nel 1540 da Jacopo Sansovino, era in quella sera tutta illuminata con torce e candele e la porta maggiore riccamente addobbata con drappi d’oro e di seta. Sul breve campo, sui ponti, sulle fondamente si pigiava una lieta folla di popolo che cercava ospitalità nelle osterie e nelle taverne da cui usciva il grasso odore del maiale arrostito, poiché appunto da quel giorno il Governo di San Marco permetteva la vendita del porco e del vino nuovo. La fondamenta di fronte alla chiesa di San Martino conserva ancora il toponimo di Fondamenta dei Penini, piedini di porco e di castrato.
Molti patrizi, in quella sera, tenevano aperti i portoni dei loro palazzi e le allegre brigate rumorose irrompevano nei cortili cantando e suonando, mentre i servi distribuivano loro vino, biscotti, formaggio e i patrizi dai poggioli gettavano senza risparmio “soldi e soldoni“.
Nel settecento la festa di San Martino si modificò di molto; c’era in quella sera sempre il frastuono della folla, e il vivace andirivieni delle compagnie per le calli e per i campi, a la musica era data da domestici utensili di ottone, di ferro, di latta che facevano uno strepito rabbioso, e le canzoni davanti le osterie, i negozi, le botteghe erano buone per coloro che davano l’offerta, ma suonavano amare per chi la negava. Le donne cantanti venivano quasi tutte da Castello, seguite da una turba di ragazzi che battevano sodo sugli improvvisati strumenti, spargendosi per le contrade vicine, ma la festa, la vera festa allegra, vivace, ridente non era più quella e si finiva quasi sempre con qualche questione per la spartizione delle monete raccolte.
Con la caduta della Repubblica anche la notte di San Martino cadde nell’oblio e solo ricordo dell’antica festa rimasero i “samartini” dei pasticceri; specie di pan forte, in forma di fantaccino o di guerriero a cavallo, con tanto di spadone, luccicante d’oro e d’argento. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 10 novembre 1932.
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