Quando i Francescani presero gli archibugi per andare alla Guerra di Candia
La guerra di Candia (Creta), anche nota come quinta guerra turco-veneziana, fu un conflitto combattuto tra la Repubblica di Venezia i suoi alleati e l’Impero ottomano, che ebbe come posta in palio il possesso di quell’isola. Per far fronte alle necessità di questa guerra, che durò ben 24 anni (1645-1669), Venezia ricorse a diversi espedienti per rimpinguare le sue casse esauste dell’erario, tra questi la vendita dei titoli nobiliari e l’incameramento dei beni ecclesiastici.
Ma senza scelta di persone, senza limitazione di numero e senza ancor sapersi il termine della guerra procedere si voleva diversamente, si doveva vendere piuttosto le pubbliche entrate, i capitali più sacri, anche alcune provincie, non mai la nobiltà. Ributtata con maggioranza di suffragi questa giudiziosa opinione, si riapriva già dopo trecento anni il famoso libro d’oro, ed inscrivendovisi i nomi di molte famiglie (*), otto milioni di ducati ristoravano in pochi istanti l’erario impoverito.
Era però quella considerabile somma ancor poca. Vivendo i canonici regolari di Santo Spirito molto in opposizione ai frutti dello Spirito Santo, e continuando i crociferi a condur molle vita, pensava la Repubblica di venir seriamente una volta alla riforma loro. E la riforma era, non sapendosi più ove racimolare, di cassarli per sempre dal novero degli altri ordini, e d’impossessarsi di tutti i lor pingui averi, riducendoli così a quella povertà e a quella castità, che, solennemente per essi giurate, non avevano saputo mantenere.
Papa Paolo V, lo Zelatore della libertà e dell’autorità ecclesiastica, scagliato avrebbe forse un secondo anatema contro Venezia. Al contrario papa Alessandro VII non solo benediceva quella determinazione, ma invaghitosene, abrogava pur egli in Italia tutti gli altri ordini ridotti ad un numero di persone insufficiente alla osservanza della regola, ordinando però che i beni di quel monasteri e di quel conventi fossero trasferiti in benefici da stabilirsi in commende ai prelati della sua corte.
Senonché, mal soffrendo Venezia di veder passare in mani straniere una parte di quelle sorgenti sopra le quali già fissato aveva gli occhi, domandava che i beni dei monasteri e dei conventi abrogati nei di lei stati fossero applicati ai bisogni della guerra di Candia: col ritorno della Compagnia di Gesù, allontanatasi da Venezia nel tempo della scomunica (1606), si rimuovevano ogni differenza, onde a quel patto lasciava Alessandro VII a Venezia la disposizione libera dei detti beni, facendo così conoscer egli come l’annullazione degli inutili conventi non sia contraria agli interessi veri della religione, e come applicandone le sostanze a sollievo degli stati sia farne un impiego legittimo e naturale. Ritornati quindi i gesuiti nei domini della Repubblica, acquistavano per cinquantamila ducati il monastero in Venezia degli espulsi crociferi.
Temessero i minori osservanti che si rovesciasse anche addosso loro uguale tempesta, o veramente, mossi da un assai generoso amore di patria, dimostrarsi volessero non inutili, offrivano, amplissimi siccome erano, un considerabile numero di frati dei conventi loro di tutta l’Europa, affinché in Candia, o sopra le navi, avessero a difendere la Repubblica; si recava per ciò a Roma un fra Giovambatista da Crema per ottenerne ratificazione. Lodò Roma ed approvò il singolare progetto, fautori principali di quello si dimostrarono i cardinali Medici e Barberino; ma si aggiungeva che i frati, oltre di dover essere guidati alle battaglie dagli ordinari loro guardiani e provinciali, aver dovessero per comandante supremo un prelato di gradimento della Serenissima. Già i porti di Ancona, di Manfredonia, di Trieste, di Messina, di Marsiglia, di Tolone e di Venezia, erano assegnati per l’imbarco delle schiere fratesche; già le strane reclute, cinte ancora i lombi di corda e con sandali a piedi, di continuo si addestravano nei chiostri del padre loro San Francesco, curiosamente mutati in piazze d’armi, al passo di marcia, a quel di attacco e a maneggiar l’archibuso; già l’Europa tutta ansiosamente attendeva di veder le prove della virtù guerriera dei minori osservanti, quando rappresentando Terra Nova, duca e ambasciatore di Spagna a Roma, la inconvenienza che i francescani portar dovessero le armi contro i Turchi e ciò per il pericolo di poter perdersi forse i luoghi santi della Palestina dai francescani stessi custoditi, andava a svanire la così bene incominciata impresa, ritornando perciò i generosi frati, deposto l’archibuso e ripreso il breviario, ai consueti loro più innocenti esercizi. (1)
(*) Quelle dei Labia, dei Widman, degli Ottoboni, dei Zaguri, dei Tasca, dei Rubini, dei Gozzi, dei Correggio, dei Fonte, dei Martinelli, degli Antelmi, dei Zenobio, dei Belloni, dei Tornaquinci, dei Suriani, dei Maccarelli, dei Bonfadini, dei Zambelli, dei Fieramosca, dei Beregani, dei Crotta, dei Tofetti, dei Santasofia, dei Fini, dei Minelli, dei Marin, dei Zon, dei Brescia, dei Ghirardini, dei Papafava, dei Cavazza, dei Leoni, dei Medici, dei Zanardi, dei Zacco, dei Dondirologio, degli Stazio, dei Gambara, dei Mora, dei Condulmer, dei Nave, dei Luca, dei Maffetti, dei Piovene, degli Angarano, degli Ariberti, dei Zolio, dei Soderini, dei Ravagnini, dei Dolce, dei Valmarana, dei Vianoli, dei Lazzari, dei Cassetti, dei Giupponi, dei Lago, dei Berlendi, dei Raspi, dei Ferro, dei Bonvicini, dei Polvaro, dei Poli, dei Flangini, dei Farsetti, dei Fonseca, dei Cornaro, dei Bergonzi, dei Barbarano, degli Albrizzi, dei Ghcdini, dei Verdizotti, dei Donini, dei Bonlini, dei Conti, dei Pasta, dei Giovanelli e dei Manin.
(1) FABIO MUTINELLI. Annali Urbani di Venezia. (Venezia 1841)
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