Gasparo Gozzi (1713-1786) librettista e letterato veneziano, e la prima moglie la poetessa Luisa Bergalli
Gasparo Gozzi a vent’anni incontrò, per sua disgrazia, una zitella di trenta, Luisa Bergalli, figlia di un ciabattino piemontese, condotta a Venezia dal conte Collalto di cui era l’amante.
La Bergalli studiò pittura sotto Rosalba Carriera, ma con poco profitto; con Apostolo Zeno invece fece nelle lettere progressi e le crebbe nell’animo l’amore della poesia, un amore che somigliava a un delirio.
Fisicamente non era bella e prendeva tabacco, ma gli occhi del giovane Gozzi pareva una Venere e nel suo entusiasmo d’amore egli la chiamava “giglio amoroso” dedicandole cinquantaquattro sonetti in lode delle mani bianche, delle labbra rosee, delle chioma bionde, del sorriso divino. Venne il 1738, la passione in rima non valse più, e fu quello un triste giorno nella vita del Gozzi quando egli si decise al matrimonio e la poetessa Bergalli divenne la contessa Gozzi.
Dopo appena qualche mese l’amore era quasi sfumato e in sua vece cominciavano i guai: Luisa, con indosso una schiavina e in capo la parrucca del conte marito per ripararsi dal freddo, non faceva che scrivere versi e sier Gasparo di se stesso diceva al patrizio Tron: “Sono un padrone di casa il più minchione di quanti furono dalla creazione del mondo, e tale anche se si comincia dai preadamiti“.
Qualche anno più tardi il maligno Carlo Gozzi, fratello di Gasparo e autore delle famose fiabe, raccontava dappertutto “mia cognata per distrazione regala a mio fratello ogni anno un figlio e un volume di versi” e così le faccende di casa andavano a rotoli, i figli erano cinque, la miseria batteva alle porte e la famiglia Gozzi era sinonimo, a Venezia, di scompiglio e di pazzia. E il buon Gasparo, in mezzo a tutto quel disordine, forse indizio di forza d’animo e forse di profonda apatia e di scetticismo, scriveva:
“L’amore dei quattrini è amor perfetto, d’andargli dietro ogni sera e mattina Con gelosia, con brama e con rispetto. Non hanno nome Lisa, né Catina, Ma scudi, ovver zecchini, ovver ducati, Nomi da farmi andare in gelatina; E veramente, quando tu li guati, Una gran tenerezza scende al core, E ti distilla giù da tutti i lati“.
La famiglia Gozzi abitava a San Tomà (dove appunto l’abate Zanier quasi cento anni or sono faceva porre una lapide che esiste tuttora) quando la Bergalli ospitò in sua casa una signora divisa dal marito, ma con della signora divisa dal marito, ma con della mobilia nuova di zecca. La poetessa arredò con quei mobili le sue povere stanze e vendette per pochi soldi le sue vecchie masserizie a un rigattiere. Ben presto le due donne litigarono, dall’alba al tramonto, Gasparo non potendone più, si cercò un alloggio migliore, la signora forestiera se ne andò anch’essa con la sua mobilia e casa Gozzi rimase a muri vuoti, talché il figlio Francesco soleva dire, con poca eleganza, ma con molta espressione “che non si sapeva dove posar le natiche“.
Gasparo riparò in una stanzetta a Sant’Angelo presso una signora da lui “servita“, certa Marianna Mastraca, e la Luisa continuò a far versi declamandoli ai figli che avrebbero preferito un buon pranzo.
Una notte a Gasparo venne il desiderio di dormire nella sua casa; picchia, suona, grida: nessun risponde; al baccano esce un vicino e lo informa che da giorni la famiglia aveva cambiato alloggio, e il buon Gasparo se ne ritorna a Sant’Angelo dalla Marianna.
La Bergalli, alle sue pazzie poetiche aggiunse anche le speculazioni, tra cui la maggiore fu l’impresa del teatro Sant’Angelo. Ma per fare economia essa raccolse intono a sé fruttivendole, lavandaie, barbieri, pizzicagnoli e ne fece dei comici. Solenne disastro; urla, fischi, bestemmie in platea; pomi, patate, sedie in palcoscenico. E intanto fra la poesia e le false speculazioni cresceva lo sfacelo della famiglia e se non fossero stati gli aiuti pecuniari della patrizia Caterina Dolfin Tron, qualche volta i figli sarebbero andati a letto digiuni.
La Bergalli continuò a verseggiare fino alla morte, e Gasparo Gozzi, quando prese moglie per la seconda volta, scelse una sarta. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 18 gennaio 1929
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