L’orgoglio dei patrizi veneziani
Sebbene il famoso Libro d’Oro fosse stato istituito a forma concreta soltanto nel 1526 e tenuti scrupolosamente dai tre Avogadori fino alla caduta della Repubblica, pure negli antichi veneziani l’ambizione, l’orgoglio, la superbia di essere patrizi di San Marco era quasi insita nel sangue tanto erano gelosi della preminenza avuta in retaggio. Che se poi in qualche piccola missione rappresentavano anche modestamente la terra di San Marco, l’ambizione cresceva a non di rado dava adito a questioni che poi si riflettevano in un sordo rancore dello straniero che si esprimeva nel suo sdegno le rozze poesie del tempo. E i veneziani erano chiamati “superbi cani ingrati“, “orgoiosi e porci“, “arroganti ingiuriosi et duri” e l’invidia, l’odio, il rancore, l’ira si sfogavano in vituperi che lasciavano la Serenissima indifferente poiché agli insulti corrispondevano in maggioranza le lodi dei più celebri ingegni d’Italia che vedevano e affermavano essere infatti la Repubblica veneziana “gran Gonfalon di libertà e di gloria“, e “l’adorno seggio ove la cara libertà ripara“.
Libertà si in confronto degli altri Stati d’Italia, ma orgoglio tanto nei togati patrizi!.
Il 3 novembre 1496, nell’ora in cui il mercato di Rialto era più affollato, uno squillo di tromba destò l’attenzione della folla; i mercanti uscirono dalle loro botteghe, i passanti si fermarono curiosi ed in breve il campo di San Giacomo fu tutto pieno di gente ciarliera e desiderosa di sapere.
Sulla colonna del bando, il famoso gobbo di Rialto, sali un banditore; due sbirri e un fante dei Dieci stavano in basso armati; un secondo squillo s’intese e il silenzio si fece solenne. Il banditore, dopo la solita formula del Consiglio, detta in fretta, come cosa già nota, lentamente ed a voce più chiara lesse: “Zuan Francesco da Cesena doctor in leze et rector di scolari allo studio di Ferrara, homo ben temerario, fo bandito di Venetia e di tutte terre et luoghi nostri et chi il prende haverà ducati milia d’oro subito dai cai dil Consejo di Diese; el qual Zuan debia morir impicado per le cane della golla in mezzo le do colone ita (fino) che ‘l muora“. Un nuovo squillo di tromba: la lettura era finita e la gente si sparpagliava commentando il terribile bando.
Zuan Francesco, dottore il legge e professore nella Università di Ferrara, doveva aver commesso un gran delitto contro la Serenissima se questa per averlo ed appiccarlo, prometteva la enorme somma per quei tempi di mille ducati d’oro, circa lire duemila di nostra moneta. Che razza di scellerato doveva essere costui!
Ma scellerato non era il “doctor in leze“, e nemmeno “homo temerario“, forse un po’ impetuoso, un po’ irascibile, ma nulla più. Questione di temperamento!
Ed ecco la spiegazione del bando: “Ser Giovanni Mocenigo, vice domino a Ferrara, una specie di sotto console della Repubblica, aveva scritto al Consiglio dei Dieci una lunga lettera narrando distesamente come, a suo dire, erano avvenuti i fatti. Il giorno di San Matteo, 28 di ottobre, il Mocenigo era solo a passeggiare, quando in una strada deserta di Ferrara s’incontrò con Zuana Francesco; emtrambi camminavano rasente il muro e messer Zuane pretendeva libero passo dal patrizio, “cossa questa contro l’honor di la Signoria” che il Mocenigo rappresentava e contro l’onore suo di patrizio della Serenissima.
Tra i due ostinati l’alterco divenne in breve violento e il famiglio del dottore mise mano allo stocco di cui andava armato, minacciando seriamente il vice domino che dovette la sua salvezza al pronto rifugio in una casa vicina.
Il Mocenigo ne informò subito il duca di Ferrara, e questi bandì dalle sue terre il “rector di scolari“, ma la Signoria, oltremodo gelosa delle sue prerogative non si accontentò della punizione sancita dal Duca ed a questa aggiunse il tremendo bando la cui lettura aveva sorpreso e destata meraviglia nei pacifici mercanti di Rialto.
Zuan Francesco si rifugiò nel territorio della Repubblica di Genova, e non sapeva darsi pace come la sua persona potesse valere la enorme somma di mille ducati d’oro e come la Serenissima lo volesse impiccare.
Ma con l’andare del tempo quell’esilio forzato e specialmente quel bando che gli avvelenava qualsiasi lieto pensiero gli dette coraggio di scrivere alla Dominante; scrisse più volte implorando perdono e la Dominante rileggendo quel bando, anche per le parole del consigliere ducale Marco Bragadin, uomo calmo, giusto, riflessivo, trovò di una grande esagerazione la parte presa, e dopo tre anni di bando accordò il 12 ottobre la grazia “al doctor di Cesena” d’accordo con il Duca di Ferrara. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 31 agosto 1926
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