Un pranzo “de magro”, nel giorno dei Santi Vito e Modesto
Era il 15 giugno 1532 e ricorreva la festa di San Vio, la cui antichissima chiesa, oggi demolita, dedicata ai Santi Vito e Modesto s’innalzava sull’area a sinistra del campo omonimo, ora occupata da edifici moderni.
Il quel girono per ricordare la vittoria della Repubblica sulla congiura di Baiamonte Tiepolo avvenuta nel 1310, il doge, la Signoria, gli ambasciatori e tutte le alte autorità della Serenissima andavano alla chiesa di San Vio per ringraziare il Santo della sua protezione.
Però essendo la chiesa abbastanza lontana dal Palazzo Ducale, il doge accompagnata dalla Signoria si recava sui peatoni ducali per il Canal Grande, mentre tutto il seguito che componeva il fastoso corteo, attravesrata la Piazza, veniva per la Calle di San Moisè fino a San Maurizio dove un ponte provvisorio di legno attraversava il canale e metteva nella piccola piazza della chiesa.
Sopra il ponte, che al tramonto di quel girono si disfaceva, passavano i senatori, il Consiglio dei Dieci, i Capi delle Quarantie civile e criminale, gli ambasciatori, i savi agli ordini, i camerlenghi, seguiti dalle Scuole grandi, dai religiosi di tutti gli ordini, dai musici di San Marco e da tutti quelli che volevano assistere alla solennità di quel fausto giorno. Le campane di tutte le chiese suonavano a distesa, le galere ancorate nel bacino di San Marco sparavano a salva, il popolo festante sulle rive del canale, al passaggio del doge, prorompeva in evviva e tutta la cottà era in festa in magnifico accordo con il potente governo che reggeva lo Stato glorioso.
Finita la cerimonia, il doge e la Signoria rientravano a Palazzo e aveva luogo il solito banchetto che il Serenissimo dava agli ambasciatori, alle autorità della repubblica e a tutti quei patrizi che erano stati pubblicamente a parte della solennità.
Nel 1532 “Soa Serenità ha voludo far el pasto tutto de pesse et fo pasto bellissimo tutto con li pessi dil nostro mare, de li fiumi et de li laghi nostri“. Su piatti d’argento si servorono le ostriche fritte su scodelle dorate “el bruoletto a la pescaora” e vennero poi le trote e i carpioni del Garda, le lamprede del Binasco, “le orade, li astesi, li cevoli et li barboni del golfo nostro“, i prelibati storioni del ferrarese, le insalate di lattuga e di carote e poi pasticci e confetti, “et mazzapani grandi, lanorate di cedro, litere di radici, castelli di rape, muraglie di limoni et di maranze“.
Fu banchetto splendido tutto di pesci anaffiati dal vino greco, e moscato dolce, ottenuto dai vitigno originari di Candia, dalla malvasia di Cipro e dalla vernaccia d’uva appasita, molto alcoolica, che veniva servita in piccoli bicchieri di cristallo dorato.
Dopo il pranzo “fo fato balar alcune pute benissimo et po recitata una comedia over egloga pastorai con soni et canti“.
Ma se il pranzo fu di magro fu invece grassa la commedia: “una zovene assa’ ben vestida veniva compagnada da do vechi et da do pastori et incoinziò a cantar una lamentation contro li vechi qual consumava la so età senza piasser et vardava et caressava li do pastori. Commenzò po a balar et li pastori diseva cosse inhoneste et lascive et la dona balando se spogiava et li vechi se bastonava tra loro“.
La commedia non fu terminata d’ordine dello stesso doge Andrea Gritti e fu invece ripreso il ballo fin quasi verso il tramonto.
Qualche giorno dopo raccoltosi il Senato, sier Zaccaria Malipiero, ricordandosi di quella sguaiata commedia “feva una renga” contro le commedie disoneste, ma per allora “non fo messa parte alcuna“.(1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 2 novembre 1924.
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