La trovata curiosa di un turco
Era appena suonato il vespro a San Marco del 17 ottobre 1571 quando una galera veneziana doppiava la punta di Malamocco e si dirigeva a vele spiegate da una brezza di poppa verso il bacino di San Marco. La galera, pavesata con tante bandiere turche a rovescio e molte striscianti per le acque era l’Angelo Gabrielle al comando di Giuffredo Giustinian, entrava a Venezia annunciando con gli evviva della ciurma e le numerosce scariche d’artiglieria, la grande vittoria di Lepanto contro la potenza dell’impero Ottomano.
La fausta notizia, dopo un’attesa di ansie, si sparse rapidamente dovunque, il popolo corse in Piazza con alte grida di gioia, le campane suonavano a distesa, i cannoni dei forti e delle navi all’ancora spararono a festa, il Doge e la Signoria “calarono” in chiesa San Marco per rendere grazie a Dio.
Tutte le botteghe della città come per incanto si chiusero, i cittadini che s’incontravano per le vie si congratulavano, si baciavano l’uno con l’altro, ma la plebe trasmodando correva a liberare i carcerati gridando in coro “libertà, libertà“, ma solo quelli che erano in prigione per debiti si lasciarono fuggire, le botteghe erano chiuse con l’iscrizione: “per la morte dei Turchi“, nessuno si partiva di Piazza fino a sera, nessuno attendeva ai negozi, i mercanti turchi spaventati si tenevano chiusi nelle loro case.
Volendo il doge Alvise Mocenigo con la Signoria discendere dal palazzo nella chiesa di San Marco, a grande stento potè penetrarvi per la moltitudine del popolo accalcato, fu subito cantato il Te Deum e celebrata la messa con grande orchestra e grande illuminazione. Paolo Paruta (diplomatico e storico, scrisse la Istoria veniziana in dodici libri) recitò l’orazione funebre ai glosiosi caduti.
Si ordinarono per quattro giorni in Venezia e nelle città di terraferma, narra la cronaca Caroldo, inni sacri e processioni, né contento a ciò l’animo devoto della Serenissima volle decretato festivo il giorno sette ottobre sacro a Santa Giustina, in cui si era riportata la grande vittoria, decretò un tempio a codesta Santa di Padova e la statua di lei da esser posta sulla porta principale dell’Arsenale, opera distinta del Campagna.
Le allegrezze pubbliche furono magnifiche: i mercanti di panno di Rialto tesero dal ponte fino alla “ruga de li Oresi“, come un firmamento di panno celeste sparso di stelle d’oro, le botteghe, i muri, le panche erano coperte di preziose tappezzerie. La piazza di Rialto era tutta addobbata di panno scarlato con esposizione di quadri, e nel mezzo sorgeva un’alta piramide d’armi, spoglie, trofei, bandiere tolte ai turchi. Davanti alla chiesa di San Giacometto si alzava un altare sul quale furono celebrati gli uffizi divini, accompagnati da solenni processioni seguite dai mercamti di panni e precedute dai musicanti della Cappella ducale.
I turchi e gli ebrei levantini che stavano al mercato di Rialto appena intesa la novella, scapparono a rifugiarsi nelle case a loro destinate a San Matteo di Rialto e narra Rocco Benedetti nella sua cronaca che stettero rinchiusi per quattro giorni “per il dubbio che havessero di essere lapidati dai putti, facendo mille segni di mestitia col rotolarsi per terra, battersi il petto, pelarsi li mustacchi et graffiarsi il viso“. Per quattro giorni le botteghe si aprirono soltanto per poche ore nella mattinata per rinchiudersi poi con quella scritta: “chiuso per la morte dei turchi” circondata da festoncini, da bandierine, da caricature di turchi sciabolati, annegati, bruciati.
I putti, che correvano le strade tutto il giorno con bandiere e tamburelli, trovarono nei turchi il loro più bel divertimento, e fatta ampia raccolta in erbaria di torsi, frutta guasta e altri rifiuti, condotti da un Balbi detto “el matto” assediarono le case dei turchi a San Matteo, con il ben nutrito lancio dei proiettili raccolti e gridando di tratto in tratto: “Demo fogo, demo fogo ai turchi cani“.
Un certo Alì Saddo, uno dei turchi che non aveva ancora perduta completamente la testa, pensò di rispondere al lancio villano con un lancio gentile e gettò ai putti biscotti, confetti, noci “scalette ed bagattini“. Alla meraviglia dei putti poi mormorii, grida festose, commenti curiosi e benigni, la collera a poco a poco svanì. Si raccolsero i regali, e qualcuno dei putti lanciò, tra le riaste della folla, il grido “Viva li turchi de Venezia!“. La pace era ritornata nelle case di San Matteo.(1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 5 luglio 1934
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