Le Cacce o le Feste dei tori durante la Serenissima
Antico era l’uso in Venezia, e nelle città di Terraferma delle cacce dei tori, derivate probabilmente dalle pratiche degli antichi Romani. Le Caccie o Feste dei tori (a) continuarono anche dopo la caduta della Repubblica sotto il primo regime austriaco, il quale successivamente le proibì, ma il governo italico succedutovi avendo con apposito decreto proibite tutte le feste di sangue, proibì anche quelle dei tori.
Queste cacce venivano permesse a Venezia soltanto durante il Carnevale, e si davano nei giorni feriali, ora nel campo di una contrada ora in un altro. Venivano proposte da alcuni macellai o da giovani di spirito, che venivano chiamati Cortesani. Ottenuta prima la licenza dai Capi del Consiglio dei Dieci, la quale per ragionevole motivo non era sempre accordata, appendevano sul campo un gran pallone ornato, segnale della festa che bastava a divulgare per la città l’annuncio. Intanto le famiglie benestanti, che sul campo dimoravano, mandavano inviti agli amici, e le povere noleggiavano i balconi. Il più delle volte si erigevano sul campo delle scalinate, o gradinate di tavole, un posto delle quali costava dieci o quindici soldi, e benchè venissero prima esaminate da periti per ordine del Magistrato dei Provveditori di Comun, non di rado crollavano, restando più persone ferite.
Alcune persone dette tiratori (b) andavano il giorno innanzi alla festa a fare scelta dei tori, questi erano otto o dodici, e per le feste grandi anche ventiquattro, pagando per ogni animale sei od otto lire. Erano i tori, nella mattinata del giorno dello spettacolo, condotti con un burcio in un luogo prossimo al campo; e accadeva talora, nel farli scendere, che qualcuno cadesse in acqua o fuggisse, il che apportava gran confusione per la contrada. Nelle grandi feste vi erano trombe, tambuti ed orchestra formale, ed in tali incontri i balconi erano riccamente addobati di tapezzerie.
Giunta l’ora della festa si dava fiato alle trombe, e tra gli evviva e il battere delle mani compariva uno o due tori, tirati con due cai (corde), e i tiratori, non tutti di una stessa contrada, vestivano in corto e per lo più con calzoni di velluto nero e giacchetta di scarlato o di drappo, con beretta rossa se erano della fazione Castellana, o nera se erano della Nicolotta. Alcuni comparivano, ma di rado, vestiti con maschera di Pantalone o di Arlecchino per non essere conosciuti. Talora prima di dare principio alla caccia onde scuotere l’animale gli si legavano alle corna dei fuochi artificiali, la cui espolsione talora riusciva all’effetto, ma tal altra lo faceva restare sospeso ed immoto, né prendeva corso che alle grida e al movimento del popolo.
Fatto dai tiratori con il loro toro un giro per il campo si veniva alla prima molata (slegata) e allora cominciava la lotta tra un cane e un toro, il quale rimaneva sempre vittima infelice, e per il numero dei cani che gli venivano uno dopo l’altro lanciati agli orecchi, e perché non libero dai movimenti. Infatti il toro vedendo che il cane gli veniva incontro, abbassava la testa per infilzarlo con le corna, il che per lo più non gli riusciva, perché aizzandosi il cane per la parte posteriore dell’animale gli si offriva pronto l’orecchio, e glielo poteva facilmente lacerare se lo si fosse lasciato; ma appena afferrato, pronto il padrone del cane lo trascinava per le gambe posteriori, e comprimendogli i genitali, o morsicandogli la cima della coda staccava il cane, lasciando ferito l’orecchio del toro, e questa carnificina si ripeteva con diversi cani, l’un dopo l’altro, fino e che si erano quasi del tutto levate le orecchie del sagrificato animale; e allora questi buoi portati tosto al macello si uccidevano non senza il loro detrimento (calo di peso), e di mala riuscita diveniva la loro carne.
E parlando dei cani, la plebe, e specialmente i macellai erano ambiziosi di tenere dei cani da toro, i quali fatti appena grandicelli e condotti al pubblico macello dei bovini si aizzavano all’orecchio di lui testè accoppato e ancora caldo. In alcune cacce i cani più valorosi, valore che in essi si dimostrava dalla prontezza nell’addentare l’orecchio, ed addentato di tenersi attaccato; come per contrario
Dopo tre o quattro molate, che anche salti si dicevano, partivano i tiratori e gli animali, ed altri in loro vece subentravano sino alla fine, e questo partire si diceva alla veneziana andar zo de la festa. Avveniva anche che i tiratori, prima di comparire sulla festa, andassero con il toro fresco, cioè non ferito nell’orecchie, sotto i balconi della novizia (sposa o amante) a fare qualche molata, e ciò verso la giovane era una grande dimostrazione di premura e di affetto.
I campi che più frequentemente servivano di circo a tale spettacolo erano quelli di Santa Maria Formosa, di San Polo, di Santa Margarita, di San Stefano, di San Giovanni in Bragora, di San Giacomo da l’Orio, di San Barnaba, di San Geremia, nell’Arzere di San Nicolò e qualche altra contrada. Feste dei tori grandiose venivano date nelle Chiovere di Cannaregio, ed una principalmente per la nobile famiglia Diedo di San Lorenzo, perché quel luogo era di sua ragione. La Giudecca pure si distingueva in questo, e le corti grandi erano i siti di maggior successo.
Nell’ultima domenica di Carnevale si dava una caccia ai tori del tutto molai (sciolti) nella corte del Palazzo Ducale, e questa festa venne già istituita per divertimento delle damigelle della dogaressa; ma quantunque non sempre menasse moglie il doge, tuttavia la caccia aveva luogo ogni anno con gran numero di spettatori. Le feste dei tori molai si facevano anche in altre parti della città. In piazza San Marco le cacce si davano dal governo straordinariamente, in occasione di venute di Principi, come quella nel 1740 del principe primogenito del re di Polonia quando venne presisposta nella Piazza San Marco “un magnifico steccato si radunò un immenso numero di spettatori buona parte venuti a posta dalle città circonvicine. Quarant’otto giovani de’ più esperti nell’arte di tirar il Toro mascherali all’Europea, Asiatica, Africana, e Americana per tre ore continue fecero la suddetta caccia, in cui vennero adoperati più di 50 bravi cani . . .“.
Al qual proposito è notorio ciò che accadde sotto il Regime Austriaco della prima epoca essendo presidi di polizia i nobili Girolamo Ascanio Moliti, e Giovanni Zusto. Stavasi eseguendo con gran pompa una di coleste cacce a tori sciolti nel Campo di Santo Stefano, in mezzo al quale erasi eretta una specie di anfiteatro, i cui gradini vedevansi coperti da immenso numero di persone d’ambo i sessi, quando all’ira provviso si udi scricchiolare una parte di esso, e poi si vide fracassare, restando molti gravemente feriti, e alcuni morti, se non sull’istante, poco dopo. Grande oltre ogni credere fu lo scompiglio; e lo spettacolo ebbe termine appena cominciato. (1)
Un bando del 1709, murato in una casa in Fondamenta dei Cereri, riporta il divieto di effettuare le cacce dei tori nella vicina (ora scomparsa) Corte di San Rocco.
Testo dell’iscrizione:
CORTE S. ROCCO
IN QVESTA CORTE SIAMO PROHIBITE
LE CACCIE AI TORRI GIUSTO AL DECRETO
DELL’ECCELSO CONSIGLIO
DI DIECI DE DI 18 FEBRARO 1709
TRASLOCATA ANNO 1856
C:B
(a) Questi spettacoli si chiamavano a Venezia Cazze o Feste de Tori, mentre a differenza di quelle che si usano in Spagna, gli animali non erano tori, ma buoi, e l’istituto e il metodo ne era ben diverso.
(b) Tiratori si chiamavano non solo gli uomini, ma anche i due capi (cai) di corda che fermavano le corna del toro. Erano per lo più due tiratori per ogni toro, e quando era un solo si diceva el tira el toro a un cao solo.
(1) Emmanuele Antonio Cicogna. Delle Inscrizioni Veneziane. Vol III. Venezia Giuseppe Orlandelli Editore.
Dall’alto in basso, da sinistra a destra: Fondamenta dei Cereri; il bando in Fondamenta dei Cereri; Joseph Heinz, la Caccia dei Tori in Campo San Polo; Gabriele Bella, la Caccia dei Tori nelle Chiovere di San Giobbe
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