L’avarizia dei Conti del Nord
“Venezia, 12 gennaio 1782. La confusione a Venezia per l’arrivo prossimo, che sarà si dice il 16 corrente, dei Conti del Nord è indescrivibile. In consulta si sono ventilati con lunghissime questioni le più piccole circostanze di ore, di vestiario, di feste, di disposizioni et altro“.
Così comincia una sua lettera Luigi Ballarini, amministratore e confidente di Sua Eccellenza il patrizio Daniele Andrea Dolfin, della contrada di San Pantaleone allora ambasciatore della Repubblica alla Corte di Vienna, e al quale il Ballarin scriveva molto e spesso raccontando tutti gli avvenimenti e gli scandali cittadini “come un gazzettino vivente del gran mondo, che tutto sa e tuto propala“.
I Conti del Nord, il granduca ereditario di Russia Paolo Petrowitz, figlio di Caterina II, e la sua sposa Maria Teodorowna, giunsero a Venezia il 18 gennaio salutati a Malghera dai procuratori di San Marco Francesco Pesaro e Antonio Grimani e avevano preso alloggio al “Leon Bianco” ai Santi Apostoli, una delle più belle locande veneziane del settecento, aperta in quel secolo nel vecchio palazzo Da Mosto prospicente il Canal grande.
La sera stessa dell’arrivo i patrizi si diedero convegno al casino dei Nobili, detto dei Filarmonici, che stava nel lato delle Procuratie Nuove confinante con la Chiesa di San Geminiano, dove intervennero i principi, ricevuti da circa duecento valletti vestiti di velluto e oro, e nelle splendide sale gli augusti ospiti ammirarono la festa mascherata e il brio delle dame veneziane, presentate alla granduchessa dalla cavaliera Andriana Foscarini nata Barbaro.
E qui cominciarono le invidie tra le patrizie, poichè, racconta il Ballarin, “la particolar destinazione della Foscarini ha urtato in modo le dame tutte che voleano partir dal Casino sul punto, fra queste per altro furono otto le più furiose e sono la signora Bettina Michiel, Lucrezia Mocenigo e la Martinenga sua sorella, la Pesaro Manin e la Pesaro Correr, la Dolfina Pesaro e la Giustinia Pisani“, che partirono davvero.
La sera dopo in una festa al teatro San Benedetto la granduchessa ballò il minuetto con il procuratore Francesco Pesaro che rappresentava il doge. Sul palcoscenico, decorato con drappi, bassorilievi di argento e grandissimi specchi di Murano era imbandita una sontuosa cena, alla quale sedettero ottanta dame e altrettanti cavalieri restarono in piedi.
I festeggiamenti proseguirono con vari spettacoli in piazza San Marco: combattimento di sessanta tori, rappresentazione con carri simbolici “il trionfo della pace“, illuminazione della Piazza, della chiesa, del campanile; si fece veder loro il Tesoro e l’Arsenale e le feste si chiusero con un grande e splendida regata in Canal grande.
Furono sette giorni di spettacoli magnifici che costarono alla Repubblica oltre quarantamila ducati, ma i Conti del Nord alla loro partenza non lasciarono buona memoria per il loro carattere ruvido e per la straordinaria taccagneria. Alla locanda del Leone Bianco “non vollero pagare che la metà di quello importava il loro debito“, non dettero nessun ragalo alle maestranze dell’Arsenale, niente alla servitù del Casino dei Nobili, ma quello che è più strano “esibitogli il conto delle Poste corse nello Stato, dove furono serviti, per loro detto, in guisa singolare, a differenza di tutti gli altri luoghi, hanno diffalcato zecchini venticinque, pretendendo che alcune poste si potevano fare con minor numero di cavalli“. I granduchi nelle loro passaggiate lungo le Mercerie avevano fatto qualche raro acquisto, ma si erano scordati di pagarlo, e partendo per Padova in un burchiello allestito con gran lusso dalla Signoria diedero “al portinar delle Porte della Mira dieci soldi di mancia“.
A Strà dove si erano fermati per visitare la famosa villa Pisani non vollero prendere parte né al banchetto, né al rinfresco apparecchiato in loro onore dalla nobile famiglia “e non dettero neppur un piccolo ai servitori” che facevano ala al loro passaggio fino alla riva del Brenta.
Ruvidi e taccagni, veri Russi del Settecento: il Consiglio cercò in parte di aggiustare le cose, ma a Venezia per alcuni giorni non si fece che discorrere dell’avarizia dei ganduchi, e Luigi Ballarini, ricordando i conti padovani che avevano fama di spilorci, così concludeva: “ma in tal modo questi sono Conti padovani, piuttosto che di una quarta parte, come abusivamente si chiamano, del mondo“. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. Il Gazzettino 18 agosto 1929.
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